lunedì 19 giugno 2023

oltre il tempo


è il titolo della mostra fotografica collettiva appena conclusasi ieri a Brescia, di cui ho parlato qui il giorno dell’inaugurazione a proposito della parte che mi riguardava

Non avevo però citato il bellissimo testo di presentazione scritto per noi da Nino Dolfo, critico d’arte, di cinema e fotografia, che è stato presente quel giorno e ci ha fatto l’onore di un suo discorso introduttivo 

riporto qui di seguito le sue parole

 

C’è chi fa il torero, chi il deputato. Io faccio il fotografo. (Thomas, protagonista di Blow up di M. Antonioni).

Il romanzo è cinema, il racconto è fotografia. Così pensava  Julio Cortàzar (1914 – 1984), faccia da gaucho  donchisciottesco, genio cosmopolita: nato a Bruxelles, morto a Parigi,  però argentino dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, a riprova che l’anima se ne fotte dei buro-travet dell’anagrafe e le nazioni sono dei sentimenti elettivi.   Uno scrittore tra i più alti del Novecento e foto-amatore. Suo quel racconto, Le bave del diavolo, da cui Michelangelo Antonioni trasse lo spunto per il suo film Blow up, opera miliare che orbita attorno e sonda l’episteme (la conoscenza) e la deontologia di un mestiere, quello del fotografo, che è testimone sempre di qualcosa di “altro” e eccedente rispetto a quello che lui stesso pensa e crede di avere visto dietro l’obiettivo. Ma questo non vuol dire che l’esubero significativo sia accidentale o fortuito, tutt’altro. Come per la scrittura letteraria  –  la fotografia è scrittura con la luce (dal greco fos, luce, e grafein, scrivere)  – il non detto è un’arte dell’allusione.  E l’arte, un talento umano. Noi vediamo quello che è compreso dentro i margini dell’inquadratura o dell’immagine, ma possiamo intuire quello che sta fuori campo o fuori pagina. Cortàzar chiamava questo dono, poetico e creativo, “apertura”: in altre parole, l’autore deve aver consapevolezza non solo di quello  che rappresenta o di cui parla, ma anche di quello che sta intorno e non compare. Ed è proprio quel dover intuire, leggere oltre i margini, che fornisce al racconto la polpa di una ambiguità sugosa, spesso complementare e più importante di quello che appare. «Il fascino dell’immagine sta anche nel trovare un equilibrio tra quello che si deve vedere e quello che non si deve vedere», spiegava Luigi Ghirri ai suoi studenti.


Il racconto è fotografia, si diceva. Un format letterario che molti scrittori ritengono il più arduo, proprio perché la brevitas pone dei limiti contenitivi. E togliere è molto più doloroso che dilungarsi ad libitum. Ma questo non preclude la profondità dello sguardo. Quando Raymond Carver, maestro della short story, si sentiva dare del minimalista, eccepiva a ragione.  Il racconto concentra il midollo della narrazione, cucendo a pelle significante e significato,  messaggio e senso del messaggio. E questo lavoro centripeto, di sintesi, il fotografo lo fa selezionando un attimo di tempo. L’eternità di un attimo. La fotografia  è una lotta con/sul tempo. Tempo come esperienza, come differenziale tra osservatore e oggetto.  Il frame, il clic ci restituisce un frammento di passato che è rivolto alla comprensione del presente. E’ una testimonianza del contingente che si presta ad una lettura seconda, in differita. Quando il tempo, ancora lui, si è sedimentato e non perduto.


Si intitola, non a caso, Oltre il tempo la mostra che riunisce tre fotografi. Amatori e dilettanti, sciolti da qualsiasi vincolo tematico, stilistico o scolastico. Il collante che li accomuna è la religione del bianco e nero,  la fede analogica, la passione per  la camera oscura,  l’attrezzeria artigianale e amanuense (vasche, pinzette, agenti chimici, lampadine inattiniche, termometri…) che sono gli strumenti della scrittura fotografica d’autore.  Sergio Preani, vena malinconica e una vocazione, già apprezzata in passato nel  cogliere le ferite delle periferie e dei non-luoghi (il cosiddetto sprawl del territorio), racconta  le attese dell’infra-ordinario, i vuoti hopperiani, il tempo morto degli uomini davanti ai binari vivi dei treni, tra silenzi siderali e sonorità ferroviarie.  Una dialettica di emozioni tra la sospensione statica e la dinamica dei transiti.  Stefano Ferremi  recupera alcuni suoi scatti  dal sapore vintage che documentano l’etnologia del vissuto primitivo di una comunità valliva di qualche decennio fa. Paesaggi che non godono di cittadinanza nelle guide turistiche, vite non desiderabili oggi ai più,  persone che si muovono in una ragnatela di brevi tragitti, tra casa e lavoro. Volti segnati   sempre dal Tempo che non fa sconti di giovinezza, volti che diventano specchi di dignità, occhi che aggettano sul mistero della natura umana e lasciano trasparire le imprevedibili capriole dell’anima. Che esiste anche dentro un corpo che produce basso reddito pro capite. Infine  Marco Biancardi, il meno “realista”  e il più immaginifico dei tre , che indaga sulla cattura del suono, rendendolo visibile. La fotografia immortala l’attimo, la musica ne consacra il significato, la loro relazione è davvero molto intima.  Una sorta di sinestesia psichedelica, resa possibile da un tecnica di ripresa chiamata “zoomburst”, attraverso la quale le note, le vibrazioni e la materia umana vivente diventano forme ed energie scolpite. E nel contempo, in un’epoca ormai votata al digitale, si riscopre e si ritorna all’ortodossia del vinile, supporto dismesso ma poi rivalutato.


Tre poetiche, tre fotografi che  hanno  confidenza con l’infinita policromia del bianco e nero, che possiedono la drammaturgia del racconto visivo e che sembrano avere un unico progetto: più che al successo, mirano alla reputazione, che si misura sulla lunga durata.





2 commenti:

  1. Che commento di potrebbe fare? Parole bellissime, che non solo introducono alla mostra, ma dicono cose essenziali sulla fotografia come arte e testimonianza.

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    1. Grazie mille, Susi. Come dici tu, parole che vanno al dì là della singola mostra e parlano della grane Fotografia.

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