la fotografia ha preso irreversibilmente la via della tecnica digitale
pur restando un fenomeno strettamente fisico, legato a fotoni ed elettroni, micro-correnti e silicio, è diventata sempre di più e viene fruita come qualcosa di immateriale e di virtuale
pixel luminosi, immagini evanescenti che transitano per pochi secondi davanti al nostro sguardo su schermi e "device" temporanei e che poi, se non rapidamente cancellate, forse restano giacenti, sepolte sotto forma di invisibili file, in altrettanto evanescenti strumenti di memoria digitale
ben altra cosa è stata la fisicità della fotografia
per i suoi primi 150 anni ha vissuto grazie a tangibili supporti, vetro, tela, celluloide, carta e a misteriosi intrugli di sali e metalli, interagenti con pozioni dalle venefiche esalazioni
ma è grazie a questa sua così pesante corporeità che oggi possiamo ancora guardare con emozione, sentendole pesare tra le mani e toccando la loro matericità, immagini, rinvenute forse in vecchie scatole dimenticate in una polverosa soffitta, realizzate decine di anni fa dai fotografi che ci hanno preceduto
impossibile allora non porsi la domanda di come sarà tra qualche decennio:
se tra venti o cinquant'anni chi verrà dopo di noi riuscirà ancora a visionare le nostre immagini, le testimonianze fotografiche che crediamo di lasciare di noi stessi, su supporti elettronici probabilmente destinati a finire in qualche discarica, quelle labili combinazioni di pixel e di bit che produciamo oggi
sono pensieri e interrogativi che mi sono venuti in mente leggendo la poetica definizione che Arrigo Boito, lo scrittore e librettista di Verdi, ha dato ai suoi tempi ancora pionieristici:
fotografia, arte nata da un raggio e da un veleno
Post Scriptum
curiosamente, il giorno dopo questo mio post, Ming Thein sul suo
blog ha scritto sullo stesso
argomento delle interessanti considerazioni